Sviluppo fotografico, .Jpeg contro .RAW (Panoramiche 4b)

Riassunto della puntata precedente

Impegnato come sono nello sviluppo di tre model shooting e di un matrimonio ho iniziato, la settimana scorsa, a parlare di post produzione delle foto e di certa mitologia che circonda questa fondamentale parte del processo fotografico. Ciò perché, provenendo dal vasto mondo della fotografia amatoriale, sia di persona che sul web ho sentito pronunciare – con teologica convinzione – opinioni alquanto immotivate e irrazionali in merito e mi diverte esporne la fallacia.

Abbiamo visto come, infatti, si post produceva anche ai tempi della Fotografia analogica, in Camera Oscura e come qualcuno che troppo spesso viene indicato come “esempio di Fotografia (vera) senza artifici” è quell’Ansel Adams, che in realtà fu anche un maestro della post produzione in Camera Oscura, autore di libri di tecnica di sviluppo e del Sistema Zonale, a cui sono debitori anche i moderni programmi di post digitale.

Correlato a questo tema, viene anche l’altra divertente (antropologicamente parlando) diatriba, fonte di guerre d’opinione termonucleari nel fandom fotografico mondiale, vale a dire l’uso di registrare le immagini in formato .Jpeg o .RAW, da fare sempre, comunque, qualsiasi sia il genere praticato e la committenza.

I formati di registrazione e condivisione delle immagini, cosa sono e a cosa servono.

Personal gear, photo by Francesco Coppola

Personal gear, photo by Francesco Coppola

Qualche accenno, intanto, per definire di cosa stiamo parlando, va dato. JPEG è un acronimo che indica un formato di registrazione dell’immagine catturata dal sensore della stessa e poi archiviata nella scheda di memoria. Viene definito come “lossy”, cioè trattasi di un tipo di un formato di immagine compresso che perde una certa quantità di informazioni raccolte del sensore, poiché il suo maggior fine è essere di dimensioni ridotte e facile da trasmettere da device a device. Lossy, però, indica anche il fatto che ogni volta che si apre questo tipo di file su un programma di editing fotografico, si perdono altri dati e quindi qualità d’immagine.

Per veloci aggiustamenti di esposizione, contratto e bilanciamento del bianco – cose che si fanno in pochi minuti e in un sol colpo – la perdita non è granché percepibile, ma dopotutto il tutto dipende da quale è piattaforma di destinazione dell’immagine. Se resta a schermo, magari in quello di uno smartphone, la perdita di qualità non si nota tanto. Peccato che le immagini che restano nelle memorie di computer e smartphone non sono neanche considerabili vere e proprie Fotografia.

Una Fotografia è un oggetto fisico, stampato, tangibile. Le fotografie vanno stampate.

Quando si va a stampare un ipotetico jpeg che è stato modificato in più riprese, mostra tutti i suoi limiti. Per averne riscontro basta anche solo usare i filtri di Istagram su uno scatto registrato in jpeg, aggiungere “Struttura”, “Contrasto”, aggiustamento di Alte Luci e Ombre e il tocco di “Nitidezza” finale, e notare la differenza che c’è guardando il risultato ottenuto dallo schermo dello smartphone, contro l’effetto che fa a vedere lo stesso scatto dal monitor del computer, un 24, 27 o 32 pollici che sia.

Inoltre, anche l’immagine che mostra la macchina fotografica sullo schermo dietro la macchina, è un jpeg.

Senza scendere in dettagli che diventerebbero troppo tecnici, poi, non tutti i Jpeg sono uguali: ogni brand fotografico ha il suo e anche quando si sceglie di impostare la macchina per fornire jpeg “neutri” o “naturali”, esiste sempre una data quantità di nitidezza, contrasto, saturazione dei colori che è stata decisa dal gruppo di ingegneri nipponici per il loro stile di jpeg. Di questo argomento, però, tratterò più estesamente nell’ultima parte di questo articolo, la settimana prossima.

RAW, dall’inglese, è un tipo di formato immagine “crudo”, vale a dire che mantiene tutte le informazioni raccolte dal sensore al momento dello scatto, ed è lossless, vale a dire non perde dati, anche quando si apre e si modifica l’immagine ripetute volte (almeno, fino a quando non si comincia a modificarne i colori). Aprendo un file RAW su un programma di sviluppo immagine non appare quasi mai molto attraente, e questo per tutte le informazioni in più che sono registrate nel file. Questo vuol dire solo che questo tipo di file è fatto per permettere la piena libertà di scegliere quale stile l’immagine avrà a fine sviluppo, permette inoltre di salvare l’immagine nel formato TIF, che è, o era sino all’altro ieri, il formato preferito dagli stampatori, cosa che non approfondisco per non mettere troppa carne sul fuoco.

Il RAW viene chiamato anche “negativo digitale”, questo proprio per la sua proprietà di permettere uno sviluppo fine, preciso, esteso o settoriale per arrivare – a fine sviluppo – all’immagine che aveva in mente il fotografo al momento dello scatto.

Scattare sempre in .RAW o sempre .Jpeg, perché gli assolutismi entrambi errati

Wrong way by NeONBRAND on unsplash.com

Alla fin fine su questo argomento vale il vecchio motto latino Virtus in medio stat: non c’è alcun motivo di mettere sul piedistallo, o demonizzare, uno strumento rispetto a un altro, essi hanno entrambi una loro specifica funzione adatta a vari contesti.

Dire che si preferisce scattare in jpeg, può magari sottendere alla paura di affrontare la fase di editing, stare tante ore davanti al computer invece che sul set, o sul campo, a scattare. Tanto legittima è questa paura che ci sono fotografi professionisti che esternalizzano la fase di editing degli scatti ad altri, oppure – mirando anche al massimo della qualità immagine – il professionista sta ore sul set a creare la luce, il colore, la composizione perfetti, con gli “effetti speciali” inclusi in fase di scatto, di modo da non dover impiegare che pochi minuti in fase di editing.

Inoltre, alcune assegnazioni professionali – pagate – richiedono per forza di cose lo scatto in jpeg. Pensiamo alla Fotografia sportiva: quando la rivista o l’agenzia stampa pretende di avere gli scatti della partita la sera stessa dell’evento. O ancora, quando si fotografano sfilate di moda per agenzie e queste hanno l’esigenza di mostrare gli scatti della sfilata quasi in tempo reale sul proprio sito web, allora ecco che la “comanda” è quella di scattare almeno in Raw+Jpeg e praticamente consegnare la scheda di memoria alla sala stampa una volta di ritorno dalla sfilata.

La pigrizia, però, non è accettabile, in Fotografia come in ogni altro ramo dell’umana creatività. L’utente finale vuole percepire (anche a livello subliminale) che il prodotto creativo è frutto di sudore e sangue. Uscire fuori dalla propria comfort zone, approcciare nuovi stili, tecniche, generi fotografici è il cuore pulsante della pratica fotografica.

Autoritratto in Largo Formato analogico sviluppato e stampato in Camera Oscura

Autoritratto in Largo Formato analogico sviluppato e stampato in Camera Oscura

Il RAW è un formato che va saputo sviluppare e portare allo stadio di stampabilità, o comunque di condivisione, è ciò che si pretende si sappia fare in moltissime altre specifiche branche della Fotografia professionale, e soprattutto per un neofita che ambisce a diventare un professionista, imparare a sviluppare egregiamente (non basta più saperlo fare solo “bene”, purtroppo - tanta è la concorrenza) i propri scatti è quanto più di indicato ci sia. Magari anche imparare, con dei corsi, a fare anche post produzione in Camera Oscura.

Cari miei, con questi chiari di luna la raccomandazione è una: distinguetevi!

Dopotutto, se davvero avete passione per questa arte della Fotografia, perché temere la post produzione? Dovreste imparare ad amarla, a divertirvici addirittura. A me, personalmente, può risultare addirittura rilassante.

Soprattutto quando affronto l’editing dei ritratti che faccio, e vedo che lo scatto ha potenzialità da entrare nel mio costituendo portfolio, ho addirittura il desiderio di usare quella tecnica di sviluppo, o un’altra, o anche di cercarmene una nuova, per dargli quel look che l’aiuti a bucare lo schermo.

E questo è quanto possa dire su questo argomento, sino a ora. L’appuntamento è con la chiusura di questo lunghissimo articolo per la prossima settimana.

Spero ti sia divertito e abbia trovato ispirante questo mio piccolo divertissement e

A presto!

Ad Majora!

Sviluppo digitale contro sviluppo analogico (Panoramiche #4)

Comincio qui una mia dissertazione personale in tre parti sul rapporto fra Fotografia analogica e Fotografia digitale. Le tre parti saranno: 1, che male vi ha fatto Photoshop?; 2, Jpeg vs RAW; 3, Il sofismo della “Color Science”.

Premessa

Con le recenti sessioni di scatto effettuate mi trovo attualmente alle prese con lo sviluppo di un bel numero di scatti. Inoltre, non è da molto che ho ultimato il secondo modulo del corso di Fotografia Analogica e ho passato alcune ore in camera oscura, alle prese con vari chimici, fissatori e compagnia cantante. Occasione perfetta per affrontare il discorso sviluppo foto in digitale e in camera oscura (o chimico).

Trovo l’argomento “sviluppo fotografico” divertente da trattare, perché avendo solcato i vasti mari della Fotografia amatoriale, ne ho visto in azione diverse delle sue tempeste di dogmatiche opinioni su vari aspetti di questa Arte. Naturalmente sullo sviluppo digitale e il suo programma più famoso, vale a dire Adobe Photoshop, s’è detto di tutto e il suo contrario.

1 - Che male ti ha mai fatto Photoshop?

Dreaming - photo by Francesco Coppola

Dreaming - photo by Francesco Coppola

Sia chiaro che esistono anche altri programmi di ritocco fotografico a computer. Ho utilizzato il nome di un prodotto ben specifico per indicare l’intero panorama non solo dei programmi per lo sviluppo fotografico digitale, ma anche l’attività stessa di usarli, così come è entrato nell’uso comune fra chi discute di questa attività. Fra l’altro Adobe Photoshop è più una piattaforma di elaborazione grafica, che un programma di solo sviluppo fotografico. La Grafica infatti è un campo molto più vasto e complesso - nella sua elaborazione a computer - rispetto allo sviluppo fotografico. Per intenderci: una volta, tanto tempo fa, fui assunto da un’azienda che produceva siti internet per aziende perché avevo messo fra le mie skill tecniche “uso Photoshop fotografico” e mi avevano messo a svolgere mansioni che richiedevano anche competenze grafiche. Furono i giorni peggiori della mia recente vita. Anche solo imparare a fare un logo letterale mi costò una nottata insonne, perso dietro a tutorial on line.

Premesso quanto sopra, c’è chi riduce tutto quel che si fa e si può fare a computer con le immagini, a quegli esempi di cattivo uso di High Dinamic Range (HDR), Contrasti sparati, Cieli assurdi con forti aloni intorno alle superfici confinanti col cielo nei paesaggi, occhi da alieno nei ritratti di modelle, lune gigantesche poste troppo vicino a montagne, e tutto il nutrito compendio di orrori che la “Fotografia Democratica” (vale a dire quella che la tecnologia ha reso accessibili a una massa di persone) ci ha sbattuto contro il muso. Davanti a tutto questo mal uso dei mezzi tecnici che il digitale mette a disposizione, certo, si tende a mitizzare l’era in cui si scattava a pellicola, anche perché allora la Fotografia era un’arte senza ombra di dubbio più elitaria. L’immagine fotografata circolava di meno e sapeva sicuramente meravigliare più facilmente di quanto non accada oggi.

Succede, però, che questo mito dei tempi passati faccia più di un passo oltre il confine del documentato e lecito e cominci a spararle grosse. Così grosse da travisare del tutto la realtà dei fatti.

C’è chi, infatti, da un manto di “sincerità”, “immediatezza” o “naturalezza” che, francamente parlando, la Fotografia non ha mai avuto. Forse, durante l’ubriacatura positivista del primo dopoguerra, l’occhio della macchina fotografica poteva anche essere scambiato per quello della “verità”. Gli anni ‘60, però, li abbiamo superati da un pezzo, suggerisco di crescere e ammodernarsi anche a chi crede a queste svenevolezze.

Nel caso vi stiate irritando col qui scrivente, abbiate la pazienza di attendere che vi mostri un paio di fattarelli, semplici, semplici, come a volte le cose legate alla Luce possono essere. Cominciamo a guardare questo articolo di una nota testata giornalistica, tanto per cominciare ad approcciare il fatto che il ritocco fotografico si è sempre fatto, è sempre stato tecnicamente possibile - sia in fase di sviluppo che anche dopo, sulla foto stessa. Pensiamo, inoltre, alle vecchie foto dei soldati di trincea della Prima Guerra Mondiale, quando si aggiungeva a china qualche tratto per contrastare di più occhi e altri lineamenti del volto, per poi andare alle falsificazioni dettate dagli uffici di propaganda politica, sino alla scoperta “scandalosa”, che certo fotogiornalismo (quella branca dell’Arte che più si è calata nel vanto del ritrarre il “vero”), anche di denuncia, penso per esempio al caso di Eugene W. Smith, il quale faceva posare i suoi soggetti per fotografie che non erano affatto istantanee provenienti dal tessuto sussultante di dolore di qualche, più o meno esotica, realtà.

Ansel Adams, The Negative, snapshot by Francesco Coppola

Ansel Adams, The Negative, snapshot by Francesco Coppola

Non dovessi avervi ancora convinto, non mi resta che citare lui: Ansel Adams, secondo qualche stordito un esempio di "Fotografia senza ritocchi” e perciò stesso “veritiera”. Costui che è il padre del fotoritocco, del Sistema a Zone e autore di diversi libri di tecnica fotografica, scrive a inizio del suo secondo volume – The Negative – le seguenti parole:

Per una stampa fotografica è impossibile replicare la gamma di luminosità della gran parte dei soggetti, e per questo le fotografie sono, in qualche misura, un’interpretazione del soggetto originario.

Gran parte della creatività nella fotografia sta nella gran varietà di scelte che un fotografo ha fra una rappresentazione quasi letterale del soggetto e una libera interpretazione che si allontana dalla realtà dello stesso. Il mio lavoro, per esempio, viene spesso definito “realistico”, quando in realtà la relazione fra i valori di luminanza nelle mie foto sono alquanto lontani dalla rappresentazione letterale dei soggetti.

Io uso numerosi strumenti fotografici per creare un’immagine che rappresenti ‘l’equivalente di ciò che ho visto e provato’, per parafrasare una frase che ho sentito molte volte pronunciare dal fotografo Alfred Stieglitz – il grande fotografo di inizio Novecento.

E ancora

Nella fotografia in Bianco e Nero registriamo un soggetto tridimensionale in (un’immagine) bidimensionale e in scala di grigi. Abbiamo una considerevole libertà per alterare i valori (di luminanza) attraverso il controllo dell’esposizione e lo sviluppo, l’utilizzo di filtri, e altro.

(The Negative – Ansel Adams, 1949. Traduzione mia dall’inglese)

Contrariamente da quanto creduto da certuni, quindi, postprodurre le foto è un’attività di lunga, nobile e professionale storia. Fondamentale è però imparare a farlo correttamente, di modo che allo sguardo di chi vede per la prima volta la fotografia il messaggio insito nella foto vada a stupirlo, senza venire prima frenato dalla constatazione che: “ah, questa è passata da Photoshop”, così come succede quotidianamente ovunque sul globo terracqueo ogni volta che si vede uno scatto pubblicitario rimanendone piacevolmente colpiti.

C’è, piuttosto da chiedersi: non è che tutta la teologica prurigine contro la post produzione non viene piuttosto da pigrizia, dalla mancanza di voglia di spendere tempo a elaborare scatti al computer?

Chiedo così, tanto per.

Questo è quanto ho per ora da dire in merito e ti rimando, lettore, alla prossima puntata di questa discussione che spero anche tu abbia trovato interessante e, chissà, magari divertente.

Ad Majora!