Favolistica e realtà sulla Color Science (Panoramiche 4c)

Riassunto delle puntate precedenti

Il mondo della Fotografia amatoriale, da quando è divenuto “democratico”, ha imbarcato al suo interno moltitudini di neofiti, pieni di entusiasmo, ma anche di facili preconcetti che hanno nel tempo innescato varie guerre di religione termonucleari su brand fotografici, tecniche, modi di scattare e soggetti da ritrarre. Assolutismi in un ramo dell’umana creatività assai duttile in cui, per dirla come Ansel Adams: “Non ci sono regole per fare buone fotografie. Ci sono solo le buone fotografie”[1].

Nelle precedenti sezioni del presente articolo abbiamo già parlato della completa falsità di certi pregiudizi sulla post produzione delle foto, mostrando che non è con l’avvento del Digitale che si modificano gli scatti, anzi, limitatamente alle tecnologie e tecniche a disposizione, la post produzione si è sempre fatta.

Un altro argomento su cui si è sempre dibattuto in modo spesso troppo teologico, è quello della lotta fra fautori del formato Jpeg, contro quelli che usano il RAW. Qui abbiamo già individuato che la stupidità risiede negli opposti assolutismi.

Fra queste argomentazioni c’è quella qui esposta e con la quale chiudo la mia lunga trattazione su questo tema. Iniziamo quindi ad addentrarci nella favolistica dimensione della Color Science.

Zeiss Tessar 50mm f 2,8 Jena Bokeh Balls, by Francesco Coppola

Zeiss Tessar 50mm f 2,8 Jena Bokeh Balls, by Francesco Coppola

In cosa consiste la diceria: l’espressione Color Science, nel parlare entusiasta ma non tanto informato, indicherebbe la qualità dei colori che proverrebbero dai corpi macchina di una data marca. I fan (utilizzatori) di Canon e di Fuji e Leica sono fra quelli che più ne fanno riferimento con alcune piccole differenze fra loro: nel caso dei canonisti, chi fra loro cade in questo errore, tende a pensare e dire che scattando con una Canon si possono avere sin da subito file con una maggiore (migliore) saturazione dei rossi, e quindi una migliore resa dei toni della pelle. I fan di Fuji vanno matti invece per i “picture profiles” (profili immagine) che imitano le qualità cromatiche prodotte dalle pellicole da sempre fabbricate da Fujifilm. Già questa seconda affermazione pone maggiori problemi in quanto non si riferirebbe tanto a una caratteristica hardware, ma software. Si sa, inoltre, che uno degli elementi che contraddistingue l’esclusivo marchio Leica è un certo carattere e saturazione delle tonalità del rosso.

Ph: Anthony Tran on unsplash.com

Ph: Anthony Tran on unsplash.com

Il nocciolo di verità: Non sono un tecnico, né un fisico, dovrò quindi semplificare la mia trattazione al massimo.

Le dominanti di colore riscontrabili su una foto digitale non dipendono unicamente dal sensore della macchina fotografica con cui è stata scattata. A giocare un ruolo vi sono anche il processore d’immagine e il software deputato alla compressione dei dati raccolti per la creazione di un’immagine in formato .Jpeg, ma in misura ancora maggiore, i colori dipendono dagli obiettivi che si montano sulla macchina. Infine, con tutti i programmi di post produzione è possibile giocare con i colori in qualsiasi modo si voglia – a patto di saperlo fare. Una tendenziale dominante di colore, positiva o negativa, in un’immagine registrata in formato RAW, poi, si corregge in neanche un minuto di lavoro

Questo cosa vuol dire, in sintesi? Alcune cose.

Primo, se pure sia vero che alcuni brand di macchine fotografiche hanno una dominante di colore principale nelle immagini che producono, questo vantaggio fa risparmiare davvero poco, in termini di tempo e di fatica ad apprendere come trattare i colori in fase di post produzione. Le qualità di un corpo macchina, del suo ecosistema di obiettivi e accessori, va ben oltre a questo unico elemento.

Secondo, dietro all’entusiasmo per una caratteristica così minimale della qualità d’immagine rischia di annidarsi la ben documentata pigrizia di chi non vorrebbe mai affrontare i programmi di post produzione e scatterebbe sempre in Jpeg, semplicemente perché gli viene a noia stare davanti al pc a sviluppare foto.

Terzo, posto che ognuno è libero di fotografare come gli pare e piace, bisogna avvertire che se si hanno speranze e/o ambizioni di diventare professionisti di un qualsiasi genere fotografico pagante, questo approccio è quantomai diseducativo: apprendere a post produrre (su Photoshop oppure Capture One, ma idealmente bisognerebbe conoscere entrambi) è in questo caso sempre indicato, tanto che non ci si dovrebbe fermare al digitale e sarebbe anche consigliabile prendere mano con una Camera Oscura e apprendere i principi di sviluppo con agenti chimici.

Eccezioni, siamo nel mondo della Fotografia, quindi c’è quasi sempre un’eccezione da tenere a mente. Quando si studia la post produzione delle immagini digitali, infatti, si apprende che esistono delle operazioni (quali la regolazione dell’esposizione, in parte del contrasto, la pulizia di alcuni dettagli, come la pelle per i ritratti) definite in inglese lossless, cioè che non comportano perdita di dati (e quindi qualità d’immagine). Altre operazioni, invece, sono definite “lossy”, le quali quindi comportano una qualche variabile perdita di qualità d’immagine, fra queste ultime sta proprio il color grading.

ph: Flaunter.com (@flaunter) from unsplash.com

ph: Flaunter.com (@flaunter) from unsplash.com

Per questo motivo, professionisti affermati di alcuni generi fotografici, come il Ritratto di Moda high end, puntando su una qualità d’immagine assoluta (dovuta anche alla stampa su grandi superfici) mirano a post produrre il minimo. Essi quindi optano per la costruzione di un set ove ogni elemento di luce, trucco, hair styling outfit, props, eccetera, esca esattamente come l’hanno voluto loro in fase di scatto, invece di affrontare lunghe sessioni di post produzione al computer.

Ciò che si risparmia, in sforzo e tempo impiegato, in post produzione – però – lo si impiega in fase di scatto, e anzi, si deve anche coinvolgere una crew e impiegare tutta un’attrezzatura, tanto, più costosa. Post produrre, alla fine della fiera, è più economico.

Stiamo qui parlando, in ogni caso, di maestri della Fotografia, i quali operano da anni in un genere, sanno cosa fanno e cosa vogliono. Un apprendista, invece, queste cose – mediamente – non le sa, né ha i mezzi per imbastire set complessi.

In conclusione: dato che fare il Fotografo implica incamminarsi in un lungo processo di apprendimento, e che la post produzione è solo una delle cose da imparare fra le tante altre, quel che dovrebbe esibire un neofita di questa Arte dovrebbe essere curiosità e desiderio di imparare sempre nuove cose . Il processo d’apprendimento fotografico in sé dovrebbe essere la “droga” di chi studia e pratica la Fotografia.

A serious large format self portrait BW

A serious large format self portrait BW

E con questo chiudo il trittico di argomentazioni sulla post produzione in digitale delle fotografie. Sperando di avere fornito una lettura piacevole, ti rinvio ai prossimi argomenti delle mie panoramiche.

A presto e

Ad Majora!






[1] E.T. Schoch (2002), The Everything Digital Photography Book (2002), p. 105 - Attributed to Adams: “There are no rules for good photographs, there are only good photographs”.